Alla ricerca di Atlantide

Alla ricerca di Atlantide

Pubblicato su Newton n. 8 Febbraio 1998

 

Alla ricerca di Atlantide

Fu nel maggio 1969 che il mondo ebbe notizia del ritrovamento delle vestigia di Atlantide. Nei fondali di Bimini, presso l’arcipelago delle Bahamas, l’archeologo Manson Valentine aveva identificato quella che pareva essere una strada; costituita da enormi blocchi di roccia, perfettamente incastrati, correva rialzata sul fondo sabbioso per qualche centinaia di metri ed era simile ad un saché la strada cerimoniale dei Maya. Ancora oggi, gli accademici sono divisi sulla interpretazione da dare a quei resti. Secondo alcuni, sarebbe una, pur inconsueta, formazione geologica; secondo altri, la testimonianza di una civiltà estremamente progredita dal punto di vista tecnologico: Atlantide

<<Un tempo (…) al di là di quello stretto che voi chiamate le “Colonne d’Ercole” si trovava un isola, più grande dell’Asia e della Libia messe insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. (…) Quest’isola di nome Atlantide (…), nel giro di un giorno e di una notte terribili, scomparve negli abissi.>> I frammenti del testo di Platone, (scritto attorno al 340 a.C., e che riporta una storia tramandata da Solone, il quale, a sua volta, l’aveva appresa da sacerdoti egizi), così come sono giunti a noi, occupano meno di 20 pagine stampate; eppure, fino a oggi, sono più di 25.000 i libri nei quali si cerca di decifrare il mistero di Atlantide e della catastrofe che ne avrebbe provocato la scomparsa.

Le ipotesi sono le più diverse: Atlantide sarebbe da localizzarsi in Svezia, secondo Olaus Rudbeck; in Sudafrica, secondo Gaspar Kirchmair; nel Mar Glaciale Artico, secondo Silvain Bailly; in Armenia, secondo Desliles de Sale; al largo di Cadice, secondo Adolf Schulten; a Ceylon, secondo Byron de Prorock; nell’isola di Santorini, secondo Angelos Galanopulos… Altrettanto numerose sono le ipotesi sulla sua scomparsa: una immane eruzione vulcanica, un maremoto, l’impatto di un meteorite, un attacco militare, addirittura una esplosione nucleare…. Secondo altri, invece – primo tra tutti, Aristotele – il racconto di Atlantide sarebbe una invenzione di Platone, o un’esagerazione determinata da una cattiva traduzione del testo.

L’interesse del mondo scientifico per Atlantide risale al 1898: durante la posa di una linea telegrafica, uno dei cavi, deposto a 2.800 metri di profondità su un fondale dell’Atlantico, da allora chiamato Platea del Telegrafo, si spezzò. Le sue estremità furono fortunosamente recuperate dall’abisso con particolari attrezzature che portarono in superficie anche una strana roccia. Qualche anno più tardi, Paul Tremier, direttore dell’Istituto Oceanografico di Francia, tenne a Parigi una conferenza che fece scalpore: quella roccia era di chiara origine vulcanica ma aveva una particolarità: non si era solidificata in acque profonde bensì all’aria aperta; doveva provenire, cioè, da un vulcano con uno sbocco al di sopra del livello del mare. Essa, inoltre, aveva bordi taglienti, non ancora smussati dall’erosione marina: analizzandone il profilo, Tremier stimò che non dovesse avere più di 15.000 anni. Ulteriori prelievi sottomarini confermarono che lo stesso tipo di roccia era presente in un area vastissima di quei fondali atlantici.

Era questa la prova dell’inabissamento di Atlantide? Le congetture si sprecarono. Di certo, l’improvvisa scomparsa, – avvenuta, secondo Platone, intorno al 9000 a.C. – di un continente poteva spiegare tutta una serie di eventi quali, ad esempio, la fine della glaciazione in Europa (non trovando più un ostacolo nel continente perduto la calda corrente del Golfo avrebbe raggiunto le coste atlantiche europee determinando il progressivo scioglimento dei ghiacci) o la periodica migrazione delle anguille verso il Mare dei Sargassi (dove un tempo lontano avrebbe potuto trovarsi l’estuario di un grande fiume) e tutta una serie di affinità mitologiche, linguistiche e architettoniche che legano le due sponde dell’Atlantico. Ben presto il mondo accademico si divise clamorosamente tra chi asseriva che si era finalmente trovata la prova scientifica dell’inabissamento di Atlantide e chi, invece, sosteneva che quelle rocce magmatiche provenivano dalle coste islandesi, inglobate da iceberg che si erano poi sciolti. La polemica si stava sedando, quando trivellazioni effettuate, a sud delle Azzorre, dalla nave oceanografica Gauss nella cosiddetta “Fossa di Romanche”, ad una profondità di 7.300 metri, rivelarono la presenza di strati di argilla rossa contenenti numerosi fossili di globigerine: protozoi microscopici che normalmente vivono in profondità comprese tra i 2.000 e 4.500 metri. A rigor di logica, quindi, quello strato di sedimenti argillosi doveva essere sprofondato, in un’epoca relativamente recente, di almeno 2.800 metri: lo stesso valore trovato da Paul Tremier per la Platea del Telegrafo.

A raffreddare gli entusiasmi provvidero, comunque, i geologi i quali fecero notare che una massa continentale come quella descritta da Platone (lunga 550 chilometri e larga 370) non poteva certo scomparire in una notte nell’oceano. Certamente, isole vulcaniche possono improvvisamente affiorare e subito dopo scomparire (nel 1931, due isole al largo del Brasile apparvero improvvisamente e si inabissarono l’anno dopo mentre le diplomazie internazionali erano già all’opera per rivendicare diritti territoriali) ma neanche la più violenta tra le eruzioni, almeno come oggi le conosciamo, avrebbe potuto provocare la catastrofe narrataci da Platone. Bisognava, dunque, spingersi più in là con la fantasia, e immaginare un qualcosa di ancora più sconvolgente: ad esempio, l’impatto di un asteroide che, squarciando la dorsale atlantica, avrebbe fatto scomparire Atlantide nel sottostante mare di fuoco e, provocato su scala planetaria tutta una serie di catastrofi, come il Diluvio.

È legittima questa ipotesi? Si, secondo Immanuel Velikovsky, un controverso studioso che ha cercato di spiegare la scomparsa di Atlantide e tutta una serie di mitologie alla luce di catastrofi di origine cosmica. Assolutamente no, per il mondo scientifico. Con una eccezione: il prof. Robert W. Bass, astrofisico, che ha rifatto le bucce alle oramai famose confutazioni delle teorie di Velikovsky, portate avanti da Carl Sagan e Isac Asimov, dimostrando che, dati alla mano, alcune ipotesi portate da Velikovsky non possono essere scartate a priori.

Intanto nell’oceano atlantico, tra il dileggio del mondo accademico, si susseguono le spedizioni per ritrovare Atlantide. L’ultima, capitanata dal caparbio Boris Asturua, avrebbe identificato, a 400 miglia al largo del Portogallo, una serie di manufatti architettonici che, comunque, la quasi totalità degli archeologi interpellati continua a ritenere banali formazioni vulcaniche. Prima di lui, un altro ricercatore, Maxine Asher, aveva avuto la stessa risposta per una serie di “piramidi” sottomarine, localizzate un centinaio di chilometri al largo dello Yucatàn. All’ostracismo degli scienziati, gli “atlantologi” ribattono che anche Heinrich Schliemann, era considerato un pazzo quando, nel 1870 cominciò a scavare la collina di Hissarlik, nella Turchia nordoccidentale, per cercare le rovine di Troia. E, intanto, si susseguono le spedizioni: la prossima, diretta da tale Ugo Forsberg, esplorerà, nel settembre 1998, i fondali al largo del Marocco. La ricerca di Atlantide continua.