Testo tratto dl libro “Fake news: guida per smascherarle”
Il termine Armi di Distrazione di Massa – reso celebre dal titolo un film del 1997 e storpiatura dell’espressione Weapons of Mass Destruction coniata nel 1991 da Alastair Campbell, consigliere di Tony Blair già inventore del termine “genocidio in Kosovo” per promuovere la guerra all’Iraq – può significare molte cose: ad esempio, distrarre, per evitare che ci si soffermi su problemi seri, attraverso il gossip (su star dello spettacolo o regnanti) o il Calcio (versione odierna del “panem e circenses”, strategia con la quale gli imperatori romani tenevano a bada le plebe). Anche l’enfatizzazione di eventi criminali, sbandierati non solo nei servizi giornalistici ma anche in innumerevoli film e serie TV possono definirsi armi di Distrazione di Massa. E non è un fenomeno nuovo. Basti pensare a Henri Landru – un piccolo truffatore, ghigliottinato a Parigi nel 1922 con l’accusa (mai provata) di avere ucciso e bruciato in un forno undici donne – il cui processo fu enormemente enfatizzato dalla stampa, verosimilmente per mettere in secondo piano la contestata firma di Clemenceau ai trattati di pace che concludevano la Prima guerra mondiale.
Oggi, comunque il termine Armi di Distrazione di Massa ha assunto un’altra accezione: creare movimenti e organizzazioni che, dietro una parvenza di “ribellione”, fanno il gioco dell’establishment.
I tentativi da parte del Potere di forgiare “rivoluzionari” da utilizzare a proprio comodo sono di antica data. L’invenzione dell’”agent provocateur”, ad esempio, viene fatta risalire al ministro della polizia francese Joseph Fouché che, già agli albori del XIX secolo, utilizzava anarchici (da egli assoldati o ricattati) per far commettere ai loro sodali attentati o rivolte destinate a scatenare la repressione e/o l’indignazione generale; più o meno, la stessa cosa che fa oggi l’Fbi nella comunità islamica statunitense.
È stata la caduta del Muro di Berlino (1989) a fare intravedere ai Think tank del Dipartimento di Stato Usa e di fondazioni ad esso collegate l’opportunità di creare organizzazioni e movimenti con i quali incanalare le energie di tanti giovani, restati “orfani del comunismo”. E così, ad esempio, anche per soppiantare le storiche mobilitazioni delle donne l’Otto marzo, da sempre venate di istanze politiche, sindacali e sociali, nasce (promossa dalla Open Society Foundation) la Marcia internazionale delle donne, che, sostanzialmente, vede nell’uomo (e non nel sistema sociale) il nemico.
A tal riguardo, un posto di rilievo spetta certamente all’enfatizzazione del “femminicidio” la cui “patria” (secondo un libro di successo: “Ossa nel deserto”; al quale sono seguiti gli altrettanto fortunati: “Il deserto delle morti silenziose.”, “L’inferno di Ciudad Juárez.”, “Ciudad Juárez. La violenza sulle donne in America Latina”… e innumerevoli articoli) sarebbe la città messicana di Ciudad Juárez, dove – per solo il solo fatto di esserlo – sarebbero state torturate e uccise innumerevoli donne. In realtà indagini del governo e della magistratura messicana e accurate inchieste giornalistiche hanno documentato che questa storia di Ciudad Juárez è solo polverone un mediatico sollevato da alcune Ong.
Lo stesso allarme “femminicidio” che occupa non poche trasmissioni TV meriterebbe un ripensamento. Questo allarme risale sostanzialmente al 2010 a seguito della sbalorditiva affermazione di tale Rashida Manjoo, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne: “Il femminicidio è la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni.” Forse poteva bastare ricordarle che, nel 2010, tra i 760 assassinati in Italia 172 erano donne, a monte, nello stesso anno, di 4090 morti per incidenti stradali (1100 donne) o i 5783 morti per incidenti domestici (la metà donne) per mandare a casa questo ennesimo “esperto” paracadutato in Italia da organismi internazionali. A essere pignoli, si potevano riportare anche i dati forniti dalle Nazioni Unite per il 2011 che evidenziavano come in Italia la percentuale di donne uccise da uomini è una delle più basse d’Europa; e questo in un paese come il nostro dove il rapporto omicidi/abitanti è tra i più bassi del mondo ed è in continua diminuzione.
Anche la famosa affermazione secondo la quale la maggior parte degli omicidi di donne si consuma nell’”ambito familiare” si ridimensiona se si tiene conto che molte donne vengono uccise non dai mariti ma dai figli (per problemi psichiatrici, di droga, questioni ereditarie). Mentre una inchiesta giornalistica rivelava che dei 111 “femminicidi” del 2019, quindici erano pietosi casi di eutanasia effettuati da anziani mariti che poi si erano suicidati. Va detto, inoltre, che il numero di donne annualmente assassinate è in netto calo; soprattutto dopo l’approvazione della legge 77/2013 che, tra l’altro, secondo il Ministero dell’Interno, ha ridotto drasticamente anche le violenze domestiche contro le donne.
Questo, ovviamente, non autorizza a dire che la condizione delle donne italiane, la loro sicurezza, è invidiabile. Tutt’altro. La macelleria sociale, lo smantellamento dei servizi pubblici, i licenziamenti, la disoccupazione… colpisce in primo luogo le donne, anche esacerbando la loro dipendenza finanziaria dal marito e/o le tensioni familiari che, in qualche caso, sfociano in delitti o violenze. Ma di questo per l’informazione mainstream è meglio non parlare e dedicarsi, invece, a dipingere un quadro che vuole le donne sopraffatte esclusivamente dal “maschilismo”.
Un’altra Arma di distrazione di massa che anima non poche mobilitazioni è quella “contro gli stranieri” e, ancor di più, “contro il razzismo”: slogan che spesso finisce per etichettare anche l’opinione di chi non accetta l’arrivo incontrollato di innumerevoli stranieri. Molti sbarcati in Italia, comprensibilmente, per migliorare il loro tenore di vita; altri perché scappano da guerre, sanzioni, carestie…, spesso imposti dalle politiche imperialiste dei paesi europei.
Sarebbe stato logico, quindi, affrontare questo problema, che provoca la morte per annegamento per molte di queste persone, impegnandosi contro le politiche di rapina e di guerra, principale causa delle migrazioni di massa e concentrando l’accoglienza su coloro che sfuggono da una morte certa.
Così non è. Intanto perché, alcune forze politiche cementano il loro consenso facendo credere alla gente che il loro tenore di vita sia minacciato dall’arrivo degli stranieri. Di riflesso, altre forze politiche – sostituendo con l’auspicio di “società multietnica” l’internazionalismo che in passato forgiava il movimento proletario nel nostro Paese – arrivano a considerare l’arrivo incontrollato di molti stranieri, non come un problema ma, addirittura come una “soluzione” (ad esempio, “per poter pagare la pensione agli Italiani”). Nascono così periodiche mobilitazioni “contro il razzismo” – personificato da Salvini, diventato la carta moschicida della cosiddetta “sinistra” – osannate da media mainstream e affollate da persone che, verosimilmente, non si rendono conto di stare lì a recitare un copione scritto da miliardari come George Soros e altri artefici di “rivoluzioni colorate” e guerre coloniali.
Stessa cosa può dirsi per altre mobilitazioni avvenute in un recente passato (come quelle che inneggiavano alla “indipendenza della Catalogna”, o appoggiavano senza condizioni la “causa curda”…) o le attuali contro il “cambiamento climatico” capitanate da un personaggio –Greta Thunberg – scelta dagli opinione maker per il suo essere una bambina malata (Sindrome di Asperger); cosicché ogni critica a Greta viene vista come una infamia rivolta da persone senza cuore.
Comunque, non è la prima volta che la causa ecologica viene affidata a bambini. Severn Suzuki – conosciuta come “La bambina che zittì il Mondo per sei minuti”, nel 1992, suscitò un mare di applausi alle Nazioni Unite parlando di un fantomatico “buco dell’ozono”, che, comunque, non fece presa nell’opinione pubblica visto che non era cominciata ancora la guerra commerciale alla Cina; e così Severn Suzuki non se la filò nessuno. Sorte identica per un altro bambino applaudito all’ONU – Felix Finkbeiner che proponeva di piantare miliardi di alberi per assorbire l’inquinamento. Idea meno balzana di quanto possa apparire a prima vista ma che, non facendo arricchire nessuno, scomparve dai media. Anche perché allora non c’era la spaventosa crisi che attanaglia oggi l’economia capitalista e che si spera di risolvere spendendo circa 100.000 miliardi di dollari all’anno per “fermare il “Climate Change”.
Francesco Santoianni